danno tanatologico non basta il mero legame di parentela (altalex.com)

  • 10-05-2012
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Danno tanatologico: non basta il mero legame di parentelaCassazione civile , sez. III, sentenza 16.03.2012 n� 4253 (Leonardo Cipriano)La sentenza...

Danno tanatologico: non basta il mero legame di parentela
Cassazione civile , sez. III, sentenza 16.03.2012 n� 4253 (Leonardo Cipriano)

La sentenza 16 marzo 2012, n. 4253 della Suprema Corte di Cassazione si pone nel solco di quel filone giurisprudenziale che tende a delimitare le ipotesi in cui il rapporto familiare costituisce il presupposto per il risarcimento delle conseguenze dannose non patrimoniali patite dai prossimi congiunti delle vittime di omicidio o di lesioni gravissime.

Al riguardo viene in rilievo la tematica dei c.d. danni da rimbalzo o riflessi, ovvero di quelle conseguenze pregiudizievoli di natura patrimoniale e non patrimoniale che il fatto illecito produce su soggetti legati da particolari vincoli giuridicamente rilevanti con la vittima diretta dell'evento lesivo.

In particolare i danni da rimbalzo sono risarcibili iure proprio, essendo danni che alcuni soggetti subiscono direttamente pur essendo terzi rispetto alla vittima primaria dell'illecito.

Inizialmente la giurisprudenza e la dottrina prevalenti escludevano la configurabilità del danno riflesso in base ad una lettura restrittiva dell'art. 1223 c.c. (come richiamato dall'art. 2056 c.c.) che stabilisce la risarcibilità dei soli danni conseguenza "diretta ed immediata" dell'evento lesivo.

Si riteneva infatti che le conseguenze pregiudizievoli in capo a soggetti diversi dalla vittima dell'illecito fossero danni per definizione indiretti o mediati e quindi non risarcibili.

Tale orientamento restrittivo è stato tuttavia superato da quella giurisprudenza che ha interpretato l'art. 1223 c.c. alla luce del criterio dell'adeguatezza causale ex artt. 40 e 41 c.p.

In particolare secondo tale criterio, sono riconducibili al fatto illecito, quei pregiudizi che si pongono come conseguenze normali secondo l'id quod plerumque accidit, mentre non sono ricollegabili all'evento lesivo quelle conseguenze eccezionali ed abnormi rispetto ad esso.

Pertanto, una volta accertato il vincolo familiare tra la vittima dell'illecito ed i soggetti che subiscono i c.d. pregiudizi mediati o di rimbalzo, non può non ritenersi sussistente il nesso causale tra lesione primaria e pregiudizi secondari prodotti ai prossimi congiunti, in quanto detto vincolo giuridicamente rilevante e caratterizzato da una serie di obblighi reciproci di assistenza materiale e morale, rende "normale" la propagazione delle conseguenze lesive anche su soggetti diversi da quello direttamente attinto.

Con particolare riferimento alla configurabilità del danno riflesso non patrimoniale, una volta superato, nei termini suddetti, l'ostacolo del nesso causale, non si sono registrate rilevanti problematiche in giurisprudenza in ordine al riconoscimento ai prossimi congiunti, iure proprio, del risarcimento del danno esistenziale da perdita del rapporto familiare, nonché del danno morale consistente nel perturbamento e sofferenza psichica subita per il venir meno del familiare.

Ed infatti, atteso che nella stragrande maggioranza delle ipotesi in cui veniva in rilievo la richiesta risarcitoria dei prossimi congiunti il fatto illecito da cui il familiare era stato attinto aveva natura anche penale, non si profilava alcun dubbio in ordine al ristoro delle conseguenze pregiudizievoli non patrimoniali, in applicazione del combinato disposto degli art. 2059 c.c. e 185 c.p..

Anzi, la giurisprudenza in diverse pronunce era arrivata a configurare in favore dei familiari il c.d. "danno biologico da rimbalzo"[1], allorché le sofferenze causate ai familiari dalla perdita del prossimo congiunto avessero determinato anche una lesione dell'integrità psico - fisica dei medesimi (sebbene, debba precisarsi che, anteriormente alla svolta giurisprudenziale operata dalle sentenze gemelle n. 8827 e n. 8828 del 2003, detto danno era ancora ritenuto danno patrimoniale e quindi risarcibile ex art. 2043 c.c. a prescindere dalla sussistenza di un illecito penale)[2].

Più travagliato, invece, è stato il riconoscimento delle conseguenze pregiudizievoli non patrimoniali subite dal convivente more uxorio.

L'orientamento giurisprudenziale più risalente, infatti escludeva il risarcimento di detto danno, sia sotto il profilo della sussistenza del nesso causale (non essendo il legame tra i conviventi consolidato da un vincolo giuridico), sia sotto il profilo del riscontro dell'ingiustizia del danno (non rinvenendosi prima facie in capo al convivente un rapporto familiare giuridicamente tutelato, come nel caso del rapporto fondato sul matrimonio).

Solo a partire dalla prima metà degli anni 90 si è registrata un'inversione di tendenza nella giurisprudenza di legittimità[3], che ha riconosciuto anche al convivente more uxorio il ristoro del danno non patrimoniale, in considerazione della ritenuta rilevanza costituzionale ex art. 2 Cost. delle unioni di fatto e previa dimostrazione della apprezzabile durata della relazione in questione (e quindi del suo effettivo consolidamento).

Non si può, infine, non accennare in questa sede agli effetti che sulla tematica del danno non patrimoniale da perdita del rapporto familiare hanno prodotto le sentenze gemelle del 2003.

Dette pronunce hanno infatti ricondotto le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla lesione di diritti primari della persona (salute, libertà personale, rapporti familiari, ecc.) al danno non patrimoniale, configurandone la risarcibilità in base mero collegamento tra l'art. 2059 c.c e le norme costituzionali che tutelano i relativi diritti fondamentali (artt. 32,13,29 e 31 Cost.) anche a prescindere dalla ricorrenza di un fatto costituente reato.

Sul piano del danno da perdita del rapporto parentale ciò ha comportato, da un lato, la sua definitiva collocazione nell'ambito del danno conseguenza non patrimoniale che trova il suo fondamento risarcitorio nel collegamento tra l'art. 2059 c.c. e gli artt. 29 e 31 Cost., dall'altro la sua piena risarcibilità, anche laddove la lesione del legame familiare non dipenda da una condotta penalmente illecita.

Infine, l'impostazione dogmatica della tipologia di danno in esame, quale conseguenza della lesione dei citati diritti costituzionali non è stata intaccata dall'orientamento restrittivo inaugurato dalla storica sentenza delle S.U. 11 novembre 2008, n. 26972, in quanto in tale ipotesi il pregiudizio esistenziale riflesso è unico e, quindi, non si verifica il cumulo tra più poste di danno non patrimoniale (appunto stigmatizzato dalle citate S.U.).

Circa la configurabilità del danno da perdita del rapporto parentale intercorrente tra nonno e nipote, si pone il problema, che sebbene detto rapporto rientri a pieno titolo tra quelli familiari - il medesimo ha carattere indiretto o di supplenza (art. 148 c.c.), stante la presenza di un grado intermedio di parentela.

In proposito si sono registrati in giurisprudenza due orientamenti contrapposti.

In base al primo, più restrittivo[4], per poter ravvisare - nell'ambito dei rapporti parentali meno prossimi rispetto a quelli intercorrenti tra i coniugi o tra genitore e figlio - una posizione qualificata e meritevole di tutela (ossia il diritto alla conservazione delle relazioni familiari) è necessario accertare un rapporto di convivenza strictu sensu o comunque la sussistenza di un effettivo e continuativo sostegno morale tra i parenti in questione.

In caso tali elementi non siano ravvisabili (ad es: il nipote non coabiti con il nonno), il parente superstite non può lamentare la lesione di una situazione familiare giuridicamente tutelata e, quindi, di aver subito conseguenze pregiudizievoli non patrimoniali connotate da ingiustizia[5].

In base al secondo orientamento[6], invece, al fine di configurare il danno da perdita del rapporto parentale, rileva l'emersione di "normali rapporti" che, "specie in assenza di coabitazione, lascino intendere come sia rimasto intatto, e si sia rafforzato nel tempo, il legame affettivo e parentale tra prossimi congiunti".

In sostanza, deve escludersi che l'assenza di coabitazione possa essere considerata elemento decisivo tale da impedire la configurabilità in capo ai parenti superstiti di una situazione giuridicamente tutelata alla conservazione del rapporto familiare (peraltro fondata su valori costituzionalmente protetti e su diritti umani inviolabili), non essendo tale assenza una circostanza di vita che possa escludere "il permanere di vincoli affettivi e la vicinanza psicologica con il congiunto deceduto".

La sentenza in commento aderisce al primo orientamento più restrittivo, ritenendo assolutamente necessario che ai fini della propagazione ai parenti meno prossimi delle conseguenze pregiudizievoli dell'evento lesivo avvenuto in capo ad un familiare, sia necessario un quid pluris oltre al mero rapporto di parentela.

D'altra parte, deve osservarsi che in relazione all'istituto dei danni non patrimoniali familiari da rimbalzo non può non ritenersi necessaria l'individuazione di un criterio oggettivo che circoscriva le conseguenze pregiudizievoli risarcibili o sul piano di operatività del nesso causale o su quello della rilevanza giuridica dei rapporti familiari meno prossimi, onde evitare che pretese risarcitorie possano essere avanzate anche da soggetti che siano collegabili alla vittima diretta dell'illecito in base al (mero) lontano grado di parentela.

(Altalex, 11 aprile 2012. Nota di Leonardo Cipriano)

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[1] Cass. 2082/2002; Cass. 881/2002, Cass. 2134/2000.

[2] Peraltro, a seguito di dette sentenze anche il danno biologico da rimbalzo deve inquadrarsi nell'ambito del danno non patrimoniale.

[3] Cass. 2988/1994.

[4] Cass. 23 giugno 1993, n. 6938 e Cass. 11 maggio 2007, n. 10823.

[5] Peraltro, si potrebbe anche sostenere che in mancanza di un rapporto familiare stretto, sia carente il nesso causale tra evento lesivo a scapito di un soggetto e conseguenze pregiudizievoli sui parenti di grado indiretto.

[6] Cassazione, sentenza 15 luglio 2005, n. 15019.